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lunedì, agosto 30, 2004

Due poeti e un filosofo 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Il racconto del «Simposio» finisce qui. Ma certo il finale fa pensare. Che cosa avrà voluto dire Platone immaginandolo in questi termini?
L'irruzione dei giovani festanti riconduce tutti alla concreta realtà. Una realtà in cui non c'è posto per il pensiero. In cui pare non aver senso l'ordine. Il chiasso spegne ogni riflessione e ogni discorso sensato.
Proprio tutte le riflessioni? Tutti i discorsi?
Al chiasso resistono solo Aristofane, Agatone, e Socrate. Due poeti e un filosofo. Come dire: solo la poesia e la filosofia restano deste a riflettere sulle cose che avvengono; solo esse son capaci di mantenere un senso, una regola, un ordine. Solo la rappresentazione scenica e la meditazione filosofica resistono alla dominante confusione per poter dare un giudizio su uomini ed eventi, per indicare una misura.
E poi anche Aristofane e Agatone cedono al sonno. E dunque: quando anche l'arte tragica e l'arte comica sono arrivate al loro interno limite, quando ormai hanno esaurito tutte le loro possibilità, resta solo la filosofia, che, raccogliendo il tragico e il comico della vita, può additare un obiettivo, una norma.


venerdì, agosto 06, 2004

Come tutti i santi giorni 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Il rito del Simposio viene bruscamente interrotto.
All'improvviso un gran chiasso. Dalle porte aperte entrano, facendo gran baldoria, un gran numero di giovani festanti: sciamano nella sala e finiscono con lo sdraiarsi anch'essi.
Salta ogni ordine. E salta pure ogni misura (oukéti en kósmo). Anche per il vino.
Erissimaco e Fedro, e alcuni altri, se ne vanno via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate - ricorda Aristodemo, il narratore dei fatti - resistono svegli (éti mónous egregorénai) per tutta la notte, continuando a bere da una grande coppa (pínein ek phiáles magáles) che si passano a destra (epì dexiá). Socrate insiste con loro nel sostenere che uno stesso uomo può scrivere sia cose comiche che cose tragiche (toû autoû andròs eînai komodían kaì tragodían), e che pertanto chi è poeta tragico per arte (tòn téchne tragodopoiòn ónta) è anche poeta comico (kaì komodopoiòn eînai). Ma i suoi interlocutori, stanchi, esausti, ormai incapaci di concentrazione, e con la testa ciondolante dal sonno, consentono con poca convinzione.
Finché anche Aristofane si addormenta. Agatone, invece, si lascia andare allo spuntar del giorno.
E solo allora Socrate si alza e se ne va (anastánta apiénai). Recatosi al Liceo - cioè alla palestra che stava fuori le mura, vicino al tempio di Apollo Licio - si lava. Messosi in ordine ... si dà da fare come tutti i santi giorni (hósper állote tèn állen heméran diatríbein).

giovedì, agosto 05, 2004

No, Alcibiade non l'avrà vinta! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Socrate quindi si rivolge ad Agatone. Alcibiade - dice - non deve averla vinta. Dunque stai attento! Che nessuno metta discordia fra te e me!
Agatone replica che ormai sono chiari anche a lui i motivi dell'atteggiamento di Alcibiade: «separarci l'uno dall'altro» (hina chorìs hemâs dialábe). Non è un caso ? rileva - che egli si è sdraiato proprio fra loro due (hos kateklíne en méso emoû te kaì soû). Ma «non l'avrà vinta»! E perché lo capisca bene, «ora vengo a sdraiarmi vicino a te».
Agatone sta per disporsi alla destra di Socrate. Ma Alcibiade si risente. Data la nuova diposizione, infatti, Socrate ora dovrebbe fare l'elogio di Agatone, e questo, ad Alcibiade, proprio non va giù. Ma Socrate quell'elogio del suo nuovo pupillo lo vuole proprio fare, e Agatone quell'elogio vuol proprio riceverlo!
Alcibiade protesta: «Ecco, siamo alle solite. Quando c'è Socrate (Sokrátous paróntos), non è possibile a nessuno (adýnaton állo) godere dei giovani belli! (tôn kalôn metalabeîn)».
Ma Agatone è determinato. E dunque si alza per andare a sdraiarsi accanto a Socrate.
E tuttavia ... l'elogio ugualmente non ci sarà.

mercoledì, agosto 04, 2004

Una gelosia ... doppia. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Siamo all'epilogo. E ormai alla fine del «Simposio»
Terminato il discorso di Alciabiade, tutti i simposianti ne apprezzano la franchezza. È chiaro: Alcibiade è ancora innamorato di Socrate (éti erotikôs toû Sokrátous).
E dunque ora tocca a Socrate. Così pesantemente attaccato, deve pur dire qualcosa. E infatti, rivolto proprio ad Alcibiade, questi esordisce asserendo che tutto ciò che egli ha detto non è dovuto di certo ai fumi dell'alcol.
No, Alcibiade non è ubriaco. Lo mostra - rileva Socrate - la struttura stessa del suo elogio. L'obiettivo era la vendetta. Ma questa è arrivata proprio alla fine del suo discorso (légon epì teleutês). Un piano premeditato, dunque. Un largo giro di parole, condotto con molta abilità, e poi il colpo finale, presentato però in modo che apparisse una cosa secondaria, una mera appendice (hos en parérgo).
L'obiettivo vero dunque - denuncia Socrate - era seminare la discordia fra lui e Agatone (emè kaì Agáthona diabállein); e la causa vera era la gelosia. Nel suo duplice aspetto. Socrate doveva amare solo Alcibiade e nessun altro (oiómenos deîn emè mèn soû erân kaì medenòs állou); e Agatone avrebbe dovuto essere amato solo da Alcibiade e da nessun altro (Agáthona dè hypò soû erâsthai kaì med'hyph'henòs állou).
No, Alcibiade, non sei riuscito a nasconderti!

lunedì, luglio 26, 2004

Attento a te! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Segue l'avvertimento, dettato da una non ancora sopita gelosia amorosa.
All'entrata nella sala del simposio Alcibiade aveva immediatamente rilevato che, nella disposizione dei posti, Socrate si trovava disteso accanto ad Agatone. E subito, nei fumi del vino, aveva apostrofato Socrate che quando vede giovani belli ... Insomma, il vecchio volpone non se ne lasciava sfuggire uno!
Ha capito che Socrate ormai corteggia il bell'Agatone. Anche lui bella intelligenza. E dunque Alcibiade s'appresta all'affondo su Socrate rivolgendosi però al giovane padrone di casa: «Queste cose le dico anche a te, o Agatone, (hà dè kaì soì légo, Agáthon) perché tu non ti faccia ingannare da quest'uomo (mè exapatâsthai hypò toútou), ma, venuto a conoscenza delle cose che noi abbiamo subìto (apò tôn hemetéron pathemáton gnónta), tu te ne stia bene in guardia (eulabethênai); che non ti accada come nel proverbio (katà tèn paroimían): di imparare - da improvvido - dopo aver sofferto» (hósper népion pathónta gnônai).
Come si vede, un colpo basso.


domenica, luglio 25, 2004

In cauda venena. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade quindi conclude il suo discorso, come si accennava, con una vera e propria vendetta.
Che si articola con una denuncia e un avvertimento.
La denuncia.
Quel che ha fatto con me - egli dice invelenito - lo ha fatto anche con Carmide, con Eutidemo e con moltissimi altri! Ci ha ingannati!
Stesso comportamento. S'è presentato come amante, e poi, operando un capovolgimento, ha tentato di diventare l'amato. Ha iniziato simulando l'atteggiamento di ricerca, di desiderio dell'altro; e poi ha configurato le cose in modo che dovesse essere lui il ricercato, il desiderato.
No. Non voleva donare se stesso al discepolo, ma, al contrario, voleva che il discepolo si donasse a lui.
Una denuncia grave, dunque. Quasi diffamatoria.


sabato, luglio 24, 2004

Un baro. Un ingannatore. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade ha concluso il suo elogio a Socrate. Dati i loro rapporti, non poteva essere, il suo, che un elogiare/biasimare. Rapporti, dal punto di vista di Alcibiade, fatti di desideri insoddisfatti, di gioie mutile, di aspettative smentite. Attraversati, dunque, da speranze e delusioni.
Delusioni ... Anche Socrate, a dire il vero, era deluso del suo discepolo. Anche per lui aspettative mancate, attese ... disattese. Questo giovane di bella intelligenza, e dunque di belle speranze, era riluttante ad un percorso d'amore che, come Socrate intendeva, implicava scelte rigorose, vivo desiderio di conoscenza, inesauribile impegno nella "ricerca". Invano Socrate aspettava il guizzo decisivo; Alcibiade era attratto da altre cose. Preferiva l'esteriore all'interiore, l'apparenza alla sostanza, il successo pubblico alle gioie della comprensione intellettuale.
Ma ora la parola la tiene Alcibiade, che, in conclusione, porta a compimento la sua sottile vendetta. Lancia la sua accusa di amato disilluso e offeso: Socrate è un bluff, è un truffatore. Ti fa credere chissà che, e poi ... Ti prospetta una cosa e poi cambia le carte in tavola.

giovedì, luglio 22, 2004

Discorsi divinissimi. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Quanto ai discorsi, nessun paragone. Non c'è altra persona simile a Socrate. Per intendere come stanno le cose - ripete Alcibiade - è opportuno far ricorso ... ai Sileni e ai Satiri.
I suoi discorsi (hoi lógoi), infatti, assomigliano moltissimo (homoiótatoí eisi) ai Sileni (toîs silenoîs), alle statuette che si aprono (toîs dioigoménois). Dunque, occorre distinguerne l'esterno e l'interno.
Essi appaiono, a tutta prima (tò prôton), del tutto ridicoli (àn pány geloíoi). Ridicoli i termini adottati (kaì onómata), ridicole le espressioni usate (kaì rhémata). Infatti Socrate non fa che parlare di asini da soma, di fabbri, di calzolai, di conciapelli; e sembra ch'egli dica sempre le medesime cose usando proprio le stesse parole. Insomma, chi non ha consuetudine con lui, alla fine, non comprendendo l'oggetto e il fine di quel ch'egli dice, dei suoi discorsi non può che riderne.
Ma si tratta solo di un rivestimento esterno: come la pelle di un arrogante Satiro (satýrou dé tina hybristoû dorán).
Se si riesce a vederli aperti (dioigoménous dè idòn án) ... se si riesce ad entrare in essi ... No, non sono i soliti discorsi. Sono i soli, tra tutti quelli che si ascoltano, che dentro hanno un pensiero (noûn échontas éndon mónous tôn lógon). Discorsi divinissimi (theiotátous)! Portatori, all'interno, di moltissime immagini di virtù (pleîsta agálmat'aretês en hautoîs échontas). E poi discorsi ad ampio spettro: non c'è aspetto della vita dell'uomo che non sia affrontato. Discutono proprio di tutte quelle cose (epì pân) sulle quali deve riflettere (hóson prosékei skopeîn) colui che vuole diventare un uomo perfetto: un uomo interiormente bello e buono (tô méllonti kalô kagatô ésesthai).

mercoledì, luglio 21, 2004

Quel che lo rende unico ... 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Socrate non è simile a nessun uomo soprattutto per i suoi discorsi

Eh sì. Di Socrate ci sarebbero molte e altre cose straordinarie (thaumásia) da dire. Cento e più altre ragioni per lodarlo (epainésai).
Alcibiade lo asserisce con semplicità. Ma, come lui stesso rileva, son tutte cose che Socrate ha pur sempre in comune con altri uomini: la temperanza, la fortezza, la saggezza, e pure il coraggio ... In effetti, per far qualche esempio, le qualità oratorie di Pericle si possono - certo! - mettere a paragone con quelle di Nestore o quelle di Antenore. E anche le virtù di Achille, in effetti, non lo caratterizzavano in modo esclusivo.
E allora, c'è qualcosa che è propria, unica di Socrate? C'è una virtù per la quale egli non è simile a nessuno? C'è una qualità che individua e caratterizza a tal punto Socrate che nessuno può essergli messo a confronto?
Alcibiade l'ha trovata. In fondo ne ha fatto cenno proprio all'inizio del suo strano elogio del maestro. I discorsi (hoi lógoi). Questo è ciò che fa di Socrate un essere stra-ordinario, a-normale (tèn atopían). Quanto a discorsi, egli non è simile a nessuno degli uomini, né degli antichi né dei contemporanei (oúte tôn nûn oúte tôn palaiôn). La sua arte del discorrere è cosa degna di ogni meraviglia (toûto áxion pantòs thaúmatos)!

martedì, luglio 20, 2004

Ritirarsi, sì. Ma a testa alta. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Stesso coraggio Socrate manifestò in altra occasione.
L'esercito ateniese, sconfitto dai Tebani, si ritirava in fuga da Delio. Alcibiade e Socrate si trovarono vicini. Alcibiade a cavallo, Socrate a piedi. Tutti i soldati avevano rotto le righe. Scappavano disordinatamente.
Socrate, pur appesantito da armi pesanti, procedeva con ordine, insieme con Lachete. Alcibiade si affrettò ad esortarli a farsi coraggio: lui - disse loro - non li avrebbe abbandonati. Ma Socrate aveva una forza d'animo ...
Sicuramente era superiore a Lachete per presenza di spirito. E camminava con orgoglioso cipiglio: a testa alta e guardando di sbieco amici e nemici. Voleva che tutti, anche da lontano, capissero che, se qualcuno lo avesse attaccato, egli era pronto a difendersi con tempestività e vigore.
Insomma faceva la "ritirata", insieme al suo compagno, esibendo sicurezza. Meritando così il rispetto e l'ammirazione di tutti. «Infatti, chi si comporta in questa maniera i nemici non lo toccano neppure!»
I nemici - si sa - inseguono e attaccano chi fugge scriteriatamente.

domenica, luglio 18, 2004

Sul premio al valore? Sconcertante. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade racconta poi della battaglia in cui gli fu conferito il premio di valore (emoì taristeîa édosan hoi strategoí). Ebbene, proprio in quella battaglia, Socrate lo salvò dalla morte (oudeìs állos emè ésosen anthrópon è oûtos). Egli, Alcibiade, era ferito, ma Socrate non volle abbandonarlo al suo destino. E così riuscì a trarlo in salvo.
Ma la cosa interessante accadde in seguito. Una strana vicenda.
A suo dire, Alcibiade, riconoscente e ammirato del coraggio di Socrate, esortò vivamente gli strateghi a dare al suo maestro il premio al valore. Ma inutilmente. Gli strateghi furono irremovibili: erano intenzionati a darlo a lui, al giovane Alcibiade. Forse per riguardo alla sua posizione sociale.
Ma la cosa strana, perché davvero insolita, fu il comportamento di Socrate. Non tenendo in alcun conto le eventuali sollecitazioni dell'orgoglio e dell'ambizione, fu lo stesso Socrate a far pressione perché il premio fosse attribuito al suo giovane compagno d'armi. Insomma fu addirittura più premuroso degli strateghi.
Com'è possibile non restare ammirati d'un uomo di tal fatta?

sabato, luglio 17, 2004

Ma quel che fece e sopportò il forte eroe ... 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Citando questo verso dell'Iliade IV, 242 di Omero, Alcibiade si accinge a raccontare l'evento più strano a cui gli è capitato di assistere.
Un giorno Socrate è rimasto in piedi, fermo, sempre al medesimo posto. E per tutta la notte, fino all'alba. Evidentemente pensava (phrontízon). Meditava. Ricercava (skopôn). E non desisteva poiché non riusciva a venire a capo del problema su cui si arrovellava. Fattosi mezzogiorno, ormai tutti s'erano accorti del fatto. E tutti cominciarono a commentare la cosa con stupore (thaumázontes). Arrivò la sera. Alcuni soldati ionici, dopo aver cenato, portarono fuori il loro letto da campo. Era estate. E, mentre distesi riposavano al fresco, lo tenevano d'occhio: volevano vedere se restava là, in piedi, per tutta la notte. Non furono delusi. Socrate davvero rimase in piedi, a pensare, finché all'alba si levò il sole. Solo allora, rivolta una preghiera al sole (proseuxánenos tô helío), si mosse e se ne andò.

venerdì, luglio 16, 2004

A Potidea. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

A testimonianza della forza fisica e morale di Socrate, Alcibiade ricorda alcuni episodi della loro vita in comune nella campagna militare di Potidea.
Che dire? Nelle fatiche - ricorda Alcibiade - era superiore a tutti. E poi, quando, restando isolati da qualche parte, si rimaneva senza cibo, nessuno gli era pari nel resistere alla fame. No, non che disprezzasse il piacere del gusto! Tutt'altro. Quando le provviste alimentari erano abbondanti, era il solo che sapeva davvero godersele. Ed anche nel bere batteva tutti: sia quando ne aveva voglia sia quando non ne aveva. Eppure: nessun uomo ha mai visto Socrate ubriaco (Sokráte methýonta oudeìs pópote heóraken anthrópon).
E ancora: la sua capacità di resistere al caldo e al freddo era stupefacente. Là, a Potidea, i freddi dell'inverno sono terribili. Una volta, ci fu gelata veramente straordinaria. Tutti noi cercavamo di stare al coperto. Nessuno s'arrischiava ad uscire, e, se bisognava farlo per necessità, ci si copriva con un'incredibile quantità di indumenti, e ci si proteggeva i piedi con panni di feltro e pelli di agnello. E lui ... Se ne uscì fuori a piedi scalzi e coperto col suo solito mantello! E si muoveva sul ghiaccio meglio di tutti altri, che avevano ai piedi i calzari. Roba da far davvero irritare i soldati, che, da questo comportamento di Socrate, non potevano sentirsi se non mortificati, umiliati.


mercoledì, luglio 14, 2004

Invulnerabile. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade lo dice con chiarezza e con amarezza. Da un lato, aveva la precisa sensazione d'essere stato disprezzato da Socrate; ma, dall'altro, non poteva non ammirare la sua natura (tèn phýsin).
Un uomo dotato di temperanza (sophrosýnen) e fermezza (andreían). Un uomo eccezionale per saggezza (eis phrónesin) e forza d'animo (kaì eis karterían).
Difficile insomma assumere un atteggiamento deciso, nei suoi confronti.
No, non riusciva ad odiarlo, ad adirarsi con lui: in fondo non voleva perdere la possibilità della sua guida; ma neppure riusciva a trovare i mezzi efficaci per attirarlo nella sua orbita.
Invulnerabile. Si, Alcibiade sapeva bene che Socrate era invulnerabile quanto alle ricchezze, ma proprio non pensava che lo fosse anche per l'amore. Perciò si trovava ormai in difficoltà, senza risorse e senza prospettive. E tuttavia continuava a girargli attorno - com'egli stesso confessa - in una condizione di vera schiavitù.

martedì, luglio 13, 2004

Altro buco nell'acqua. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade, nel racconto che fa ai convitati, non nasconde l'amarezza della sua delusione. Dopo tutte le cose sentite e dette ... dopo aver scagliato i suoi dardi ... era convinto d'averlo ferito. Macché!
E allora ...
«Mi alzai, e, senza lasciargli dire più nulla, gli posi il mio mantello addosso, perché era inverno. Poi, sdraiatomi anch'io sotto il suo logoro mantello, abbracciai (peribalòn tò cheîre) quest'uomo veramente demonico e meraviglioso (toúto tô daimonío hos alethôs kaì thaumastô). E ... rimasi lì, così, tutta la notte (katekeímen tèn nýktà hólen)».
Insomma Socrate niente! Nessun cedimento. Neppure a queste iniziative. Sicché, commenta Alcibiade con dispetto misto ad ammirazione, anche in queste circostanze e condizioni Socrate «fu di gran lunga superiore».
Ma Alcibiade non può sottacere che questo comportamento di Socrate, il suo astenersi, gli suonò come disprezzo e derisione, anzi come oltraggio, di quanto egli, Alcibiade, credeva essere il suo miglior pregio: il fiore della giovinezza. E dunque sollecita ed esorta i convitati a costituirsi giudici della superbia di Socrate (tês Sokrátous hýperphanías)!
Niente, dunque. Proprio niente. Alcibiade lo giura per gli dei e per le dee (mà theoús, mà theás): stretto a Socrate, ha solo dormito. L'indomani, insomma, si è alzato senza aver fatto nulla di più che se avesse dormito con suo padre o con il suo fratello maggiore (metà patròs è adelphoû).

lunedì, luglio 12, 2004

Non è il momento! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Parole forti, quelle di Socrate. Ed anche di decisa opposizione al progetto di Alcibiade. Al quale non resta che ribadire il suo pensiero, e precisare che quello che ha detto è esattamente quello che pensa. Se sia o no praticabile la sua proposta, deve dirlo Socrate. Dunque: «Decidi tu quello che ritieni sia meglio per me e per te».
Ma Socrate ...
Ricordiamo la scena: è notte ... a casa di Alcibiade ... dopo la cena ... Socrate e il suo giovane discepolo sono distesi sui lettini disposti l'uno vicino all'altro.
No, non è il caso di decidere. Non è il momento!
E infatti Socrate adotta una strategia dilazionatoria. «Decideremo nei giorni che verranno», e così davvero «faremo ciò che sembrerà il meglio per noi due, in queste cose così come in altre».

sabato, luglio 10, 2004

Armi d'oro e armi di bronzo. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade - secondo Socrate - vedrebbe in lui una bellezza straordinaria (améchanon kàllos) di tipo molto diverso dalla sua propria bellezza. Quella di Alcibiade è avvenenza fisica (eumorphía), quella di Socrate invece sarebbe solo una bellezza interiore. Dunque Alcibiade vorrebbe "intensificare" i rapporti nella speranza - o meglio nell'illusione - di "scambiare bellezza con bellezza" (alláxasthai kállos antì kállous). Egli dunque - sottolinea Socrate operando un scarto ironico - pensa di trarre non poco vantaggio ai suoi danni! In cambio dell'apparenza del bello, egli aspira a conquistare la verità del bello (antì dóxes alétheian kalôn ktâsthai epicheireîs)!
E citando elegantemente il verso Iliade XI 514, Socrate aggiunge: sarebbe come scambiare armi d'oro con armi di bronzo (tô ónti 'chrýsea chalkeíon' diameíbesthai); sì, perché la mia bellezza non ha alcun valore.
Quindi esorta Alcibiade. Guarda meglio (ámeinon skópei)! Se tu avessi guardato davvero con la vista della mente, la cosa non ti sarebbe sfuggita. Il fatto è che non te ne sei accorto; dunque non sei ancora in grado di esercitare quello sguardo. "La vista della mente (hé tês dianoías ópsis)impara a vedere in modo acuto (árchetai oxý blépein), quando quella degli occhi (hótan he tôn ommáton) incomincia a perdere la sua acutezza (tês akmês légein epicheirê), e tu, da questo, sei ancora lontano (sý dè toúton éti pórro)".

giovedì, luglio 08, 2004

Un uomo non da poco! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade prosegue il suo racconto.
A questo suo tentativo di parlar chiaro e di mettere il suo maestro alle strette, Socrate opera un inaspettato capovolgimento del discorso. Agli attestati di stima ricevuti replica attribuendoli tutti alla generosità del discepolo. Ma ad Alcibiade non sfugge che Socrate sta esercitando, come suo solito, dell'ironia (mála eironikôs).
Se - dice Socrate - quel che Alcibiade asserisce di lui è vero (eíper aletê tygkánei ónta hà légeis perì emoû), e se dunque egli vede in lui una forza (tìs ést'en hemoì dýnamis) capace di renderlo migliore (di'hês àn sý génoio ameínon), le sue parole testimoniano indubbiamente che Alcibiade è davvero un uomo non da poco!
Tuttavia ...

sabato, giugno 26, 2004

Siamo ormai al punto! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade s'avvia a completare il racconto del secondo invito a cena.
Dunque lui e Socrate si trovano su letti vicini. Non c'è nessuno. Anche i servi sono stati allontanati. La lampada è spenta. Gli sembra ormai di non dover più tergiversare. Deve dirgli in tutta libertà le cose a cui tiene!
Lo scuote dolcemente e gli chiede se sta dormendo, e, assicuratosi che sta sveglio, gli dice con semplicità che a lui sembra che Socrate sia davvero l'unica persona degna d'essere il suo amante (sy emoí dokeîs emoû erastès áxios gegonénai). Non comprende - aggiunge - perché stranamente Socrate non prenda l'iniziativa. Gli pare strano che esiti a farne parola. Comunque, questo è il suo sentimento! Anzi a lui, suo maestro, egli non esiterebbe ad offrire ciò di cui avesse bisogno, sia sul piano economico che su quello delle amicizie; e dunque, gli pare cosa del tutto insensata (pány anóeton) non offrirgli i suoi favori "anche in questo" (soì mè ou kaì toûto charízesthai), anche sul piano dell'amore. Sarebbe il completamento del rapporto. Quel completamento che gli permetterebbe di realizzare appieno quello ch'egli, Alcibiade, ritiene essere la cosa per lui più importante: «diventare, quanto più è possibile, migliore» (hóti béltiston emè genésthai). E, per raggiungere quest'obiettivo, non c'è altri che Socrate che possa aiutarlo davvero.
No, a lui non interessa nulla di quel che penserebbe la gente comune, quella che non capisce. Certo, sono i più. Ma egli non proverebbe alcuna vergogna alla loro riprovazione. Anzi - dice Alcibiade non senza finezza retorica - proverebbe molto più vergogna di fronte a coloro che capiscono quel che sta accadendo tra loro: tali persone, infatti, troverebbero strano, ingiustificabile, che, per raggiungere il suo nobile obiettivo, egli non concedesse tutti i suoi favori a un uomo come Socrate.

mercoledì, giugno 23, 2004

Il morso della vipera. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

A questo punto del discorso Alcibiade si ferma: avverte l'esigenza di fare una precisazione. Sta per dire delle cose che ... senza vino certo non avrebbe detto. Il vino - si sa - è sempre veritiero (oînos alethés). E dunque questa splendida azione fatta da Socrate (Sokrátous érgon hyperéphanon), anche se tocca da vicino alcuni aspetti della loro relazione privata, proprio non va taciuta. Se si deve fare l'elogio di Socrate, a maggior ragione non è giusto tenerla nascosta.
Alcibiade inoltre fa un'interessante osservazione. In questo momento - dice - io mi sento come uno che sia stato morsicato da una vipera (dechthéntos hypò toû écheos), il quale - com?è noto - non ama parlare di ciò che ha provato se non con coloro che hanno vissuto la stessa esperienza. Chi ha provato il dolore (hypò tês odýnes) del morso della vipera arriva fino al punto di dire e fare ogni genere di cose (pân etólma drân te kaì légein), anche cose incredibilmente sorprendenti; e soltanto chi ha vissuto la stessa dolorosa esperienza può comprendere e perdonare il suo strano comportamento. Sì - prosegue Alcibiade - è capitato anche a me: sono stato morsicato nel punto in cui il morso fa più dolore; no, non nel corpo, ma nel cuore e nell'anima (tèn kardían è psychén): colpito e morso (plageís te kaì dechtheís) dai discorsi di Socrate, dai suoi discorsi di filosofia (hypò tôn en philosophía lógon); discorsi che, in modo ben più brutale della vipera (echídnes agrióteron), prendono l'anima dei giovani dotati (néou psychês mé aphyoûs lábontai), e le fanno fare e dire qualsiasi cosa.
Non dico cose strane. E' la filosofia che fa strani effetti. E molti, qui presenti, ne sanno qualcosa: Fedro, Agatone, Erissimaco, Pausania, Aristodemo e Aristofane. E lo stesso Socrate. Tutti voi siete accomunati (pántes kekoinonékate) dalla follia e dal furore del filosofo (tês philosóphou manías te kaì bakcheías). Ma anche tutti in grado di capire e perdonare le cose che ho fatto e che ora sto per raccontare.


martedì, giugno 22, 2004

Neppure a cena ... 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Lo invitai, allora, a cenare con me (pròs tò syndeipneîn), proprio come un amante che tende il laccio all'amato (hósper erastès paidikoîs epibouleúon).
Alcibiade racconta quindi dell'invito a cena. Anzi, degli inviti a cena.
No, non fu facile. Innanzi tutto perché dovette passare un bel po' di tempo prima che si convincesse ad accettare. E poi, quando finalmente si decise ... fu uno strazio!
La prima volta che venne - dice Alcibiade - se ne andò via appena si ebbe finito di cenare (deipnésas apiénai eboúleto). Non mi opposi: in fondo io, in quel momento, avevo ancora un po' di vergogna (aischynómenos).
Ma la seconda volta ... ce la misi tutta. Dopo cena tirai avanti la conversazione fino a tarda notte, e quando manifestò l'intenzione di andarsene, gli dissi che ormai era così tardi ... tanto valeva rimanere lì. Insomma, lo costrinsi a restare (prosenágkasa autòn ménein).
E così si mise a riposare sul letto sul quale aveva cenato. Quel letto era proprio vicino al mio (en tê echoméne emoû klíne). E in quella stanza, tranne noi, non c'era nessuno (kaì oudeìs en tô oikémati állos katheûden è hemeîs)!

domenica, giugno 20, 2004

Ancora niente. Nessun risultato. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade continua con il racconto dell'escalation della sua «conquista» di Socrate.
Lo invita, dunque, anzitutto a fare ginnastica insieme (syngumnázesthai proukaloúmen autòn). Cosa abbastanza comune a quel tempo.
Aveva fiducia: trovandoci insieme ... in questa situazione ... Ma lui, niente! Sì - racconta - stavamo insieme, facevamo ginnastica (synegymnázeto); e spesso i corpi si trovavano avvinti nella lotta (prosepálaien). Insomma, c'erano tutte le condizioni giuste! E poi frequentemente ci si trovava anche completamente soli (pollákis oudenòs paróntos). E tuttavia ...
Che dire? (tí deî légein;). Niente più di questo (oudèn moi pléon ên). Niente da fare, non riuscivo proprio a ricavarne nulla!
Alcibiade racconta allora di essersi trovato a pensare che ... non bisognava lasciar correre. Non bisognava mollare. E dunque occorreva ch'egli mutasse atteggiamento. Sì, si sarebbe dovuto imporre a Socrate con la forza (katà tò karterón)! E non solo perché egli fino a quel momento ci aveva messo l'anima in questa cosa, ma anche perché bisognava far chiarezza, una buona volta!
Di qui, la successiva iniziativa.

venerdì, giugno 18, 2004

Una prima delusione 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

E così Alcibiade - con semplicità e, a suo dire, con verità (deî gàr pròs ymâs pánta talethê eipeîn) - descrive la strategia adottata, gli stadi del progressivo avvicinamento a Socrate. E dunque, il primo passo fu di ... liberarsi della scorta: «mentre prima di allora non ero solito stare da solo con lui senza un accompagnatore, allora incominciai a mandare via i1 mio accompagnatore. Dunque cominciò a rimanere con lui da solo a solo (synegignómen mónos mónô.
Ma qui la prima delusione.
Immaginava che Socrate prendesse presto l'iniziativa. Godeva già (échairon) al pensiero che il maestro avrebbe subito (autíka) iniziato a fare con lui quei discorsi (dialéxesthai autón moi) che un amante fa al suo amato (háper àn erastès paidikoîs dialechtheíe), quando se ne stanno appartati (en eremía).
E invece ... di tutto questo (toúton) non accadeva proprio niente (ou mála egígneto oudén)! E così, come suo solito, dopo aver discorso e passato la giornata con me (dialechtheìs án moi kaì synemereúsas), mi lasciava e se ne andava a casa (ócheto apión).

lunedì, giugno 14, 2004

Il fiore della giovinezza. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade s'avvia a parlare del suo rapporto con Socrate. Un rapporto erotico-paideitico. Nell'Atene greco-classica Eros e paideia sono elementi strettamente e inscindibilmente connessi. Lo si è detto: l'amante s'impegna ad offrire tutto quanto aiuti il giovanetto a crescere, a maturare, intellettualmente e sentimentalmente. L'amato s'impegna ad offrire i suoi favori al maturo amante, e soprattutto a seguire le sue indicazioni formative. E dunque, questo è il senso delle parole di Alcibiade: «bisognava far subito ciò che Socrate ordinava!».
Nel racconto che Alcibiade sta per fare si ritrovano certamente aspetti molto personali del rapporto erotico; ma vengono in evidenza anche gli aspetti - si direbbe - di procedura codificata nella società ateniese. Come quello che ... il giovinetto va in giro accompagnato, e rimane solo col maestro solo quando questi ha - per così dire - reso formale il rapporto. Che nasce sempre da una duplice tendenza attrattiva dell'uno verso l'altro.
Alcibiade racconta che da giovanissimo egli aveva una considerazione veramente straordinaria del fiore della sua giovinezza. Sicché, agl'inizi, egli aveva pensato che Socrate potesse prendere sul serio questa sua bellezza, questa sua grazia giovanile (espoudakénai epì tê emê óra). Pensava che un rapporto pieno con quest'uomo saggio fosse un tesoro da non perdere (hérmaion), una fortuna straordinaria (eutýchema). Egli era dunque davvero convinto dell'opportunità di concedere a Socrate i suoi favori, in cambio della possibilità di ascoltare e far proprio tutto ciò che lui sapeva.

giovedì, giugno 10, 2004

Immagini divine. Immagini d'oro. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Sì, Socrate è proprio come il Sileno scolpito (hósper ho geglumménos silenós). Una cosa è il suo rivestimento esteriore (éxothen), altro è l'interno (éndothen). Ecco, quando si pensa ad un amante, lo s'immagina irrequieto e senza misura. Ora, lui, certo, ama i giovani belli, ma non si può immaginare di quanta temperanza (póses sophrosýnes) sia ripieno.
L'atteggiamento che lo caratterizza è il distacco. Certo, è sensibile alla bellezza. Ma «se uno è bello (eí tis kalòs esti), a lui non importa proprio niente (mélei autô oudén)». Non si fa coinvolgere dal suo fascino. Anzi, addirittura lo disprezza.
Insomma, non gliene importa niente proprio come non gl'importa niente se l'amato abbia delle ricchezze (ploúsios), o se goda di quegli onori (állen tinà timèn échon) che rendono felice la gente comune. «Egli pensa che tutti questi beni non abbiano nessun valore (pánta taûta tà ktémata oudenòs áxia), e che noi non siamo nulla (hemâs oudèn eînai)».
È questo distacco che lo fa stare tra la gente con la sua ironia (eironeuómenos). È per questo atteggiamento interiore ch'egli, della gente, si fa gioco (paízon).
Ma quando fa sul serio ... quando si apre ... quando apre lo scrigno dei suoi tesori ... Io, una volta, le ho viste, le immagini che porta dentro (tà entòs agálmata). Immagini divine (theîa)! Immagini d'oro (chrysâ)! Tutte belle (págkala) e mirabili (thaumastá), al punto da lasciare stupefatti, schiavi. E bisognava far subito ciò che egli ordinava!

mercoledì, giugno 09, 2004

Nessuno conosce quest'uomo! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade, ad inizio del suo elogio, ha paragonato Socrate non solo a Marsia ma anche ai Sileni. Egli intende mostrare «quanto sia meravigliosa la potenza che egli ha» (tèn dýnamin hos thaumasían échei). Una potenza che Socrate porta ben nascosta dentro di sé. Appunto, proprio come i Sileni, che le immagini degli dèi le nascondono al loro interno!
No ? dice -, «nessuno di voi conosce quest'uomo» (oudèis hymôn toûton gignóskei). I suoi tesori non sono visibili. Ma io sono in grado di mostrarli. Io vi svelerò chi è davvero costui (egò delóso)!
Ecco, lui è sempre innamorato dei bei giovani (erotikôs diákeitai tôn kalôn): infatti sta sempre attorno a loro (aeì perì toútous estì)! Dunque ama la bellezza e per i belli si strugge d'amore (ekpéplektai). Ma mica lo dice, e certo non lo dà ad intendere: lui ... ignora tutto (aû agnoeî pánta) ... lui ... non sa niente (oudèn oîden)! Insomma all?esterno è una cosa e all?interno ... L?esterno non rivela mai quel che gli avviene all?interno. E questo suo atteggiamento (tò schêma) non è forse da Sileno? Certo che lo è!

sabato, giugno 05, 2004

... e mi fa vergognare di me stesso. 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Sì - prosegue Alcibiade - Socrate ha la capacità di mettermi di fronte a me stesso; di farmi riflettere su me stesso. Ha il potere di inchiodarmi alle mie responsabilità. Certo, non sono perfetto. Ma lui mi costringe ad ammettere (anagkázei me homologeîn) che solo a me spetta la colpa di non prendermi ancora cura di me stesso (autòs éti emautoû mèn amelô). Mi occupo delle cose degli Ateniesi (tà Athenaíon prátto), e non mi occupo abbastanza di me stesso.
Lui ha ragione, ma io non ho la forza di reggere a questa prova. E quindi a viva forza (bía) mi allontanano da lui dandomi alla fuga (oíchomai pheúgon). E mi turo le orecchie (epischómenos tà ôta) come davanti alle Sirene (hósper apò tôn Seirénon). Tutto inutile. In ogni caso non mi va proprio d'invecchiare vicino a lui. Lui solo mi fa vergognare di me stesso: e non è facile. Proprio così: io mi vergogno di fronte a lui! E solo di fronte a lui io mi vergogno (egò dè toûton mónon aischynomai). Ma sì ... perché io so bene di non essere in grado di contraddirlo (antilégein). Se solo riuscissi a mostrargli che non ho bisogno di fare le cose che egli mi esorta a fare! Ma ha ragione lui.
Non appena io mi allontano da lui (epeidàn dè apéltho), mi lascio avvincere dagli onori (hetteméno tês timês) che la moltitudine mi tributa. E così vivo in un'esasperante oscillazione. Mi sottraggo a lui e lo sfuggo; ma quando lo rivedo mi vergogno per quelle cose che mi aveva fatto ammettere. E di oscillazione in oscillazione ... Più volte mi viene voglia di non vederlo più fra i vivi, ma poi, quando ci penso davvero ... se questo si verificasse, proverei un dolore molto maggiore (polý meîzon àn achthoímen)!
Insomma, con quest'uomo non so proprio come fare.

venerdì, giugno 04, 2004

... fa battere il cuore, fa sgorgare le lacrime ... 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Sì, anche Alcibiade. Anche lui, a sentire i discorsi di Socrate, ne restava stordito e posseduto. E ne resta ancora. E questa sua esperienza la vuole proprio raccontare, descrivere. Ma gli dispiacerebbe sul serio se le sue parole fossero liquidate come discorsi da ubriachi!
Ma sì - inizia Alcibiade -, nell'ascoltare le sue parole, mi batte il cuore (hé te kardía pedâ) e mi vengono le lacrime (kaì dákrua ercheîtai), che è esattamente la cosa che accade a tante altre persone (állous pampóllous tà autà páschontas). No, non è come quando ascoltavo Pericle. Di molti bravi oratori ho spesso pensato che parlavano bene; ma certamente nessuno, con i suoi discorsi, ha mai messo in tumulto la mia anima; nessuno ne ha mai destato la rabbia, che è fatto naturale quando ci si sente come se si fosse schiavo (hos andrapododôs diakeiménos)! Ecco, è questo che provavo e provo all'ascolto delle parole Socrate. Novello Marsia, spesso (pollákis) mi ha sconvolto fino a tal punto da indurmi a pensare che, in fondo, non vale la pena vivere come vivo io, comportarsi come mi comporto io. No, non è la sensazione di un momento. Anche ora non saprei opporre resistenza (ouk àn karterésaimi) ai suoi discorsi: la mia anima ne viene catturata. E dunque, anche ora proverei proprio le medesime cose (tautà àn paschoimi), anche adesso proverei le stesse emozioni.

giovedì, giugno 03, 2004

Come il satiro Marsia ... 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

E allora: così come Marsia, Socrate è un suonatore di flauto (auletés); anzi, è molto più straordinario, molto più mirabile (polý thaumasióteros). Infatti, mentre il satiro incantava gli uomini mediante strumenti (di'orgánon), con la potenza che gli veniva dalla bocca (tê apò toû stómatos dynámei), Socrate l'incanta senza usare strumenti (áneu orgánon), ovvero con le nude parole (psiloîs lógois). Queste parole, proprio come le melodie del satiro, sono divine e, per loro intrinseca virtù, coinvolgenti, ispiratrici, capaci di generare l'iniziazione ai misteri (katéchesthai poieî).
Ed infatti, chi ha frequentato Socrate - aggiunge Alcibiade - lo sa che i suoi discorsi non sono come quelli di qualunque altro oratore (rhétoros állous lógous), anche se bravo (pány agathoû). I discorsi di Socrate, anche quando sono solo riferiti da altri, e anche se chi li riferisce è uomo di scarso valore (pány phaûlos), non possono non colpire. E infatti colpiscono tutti: uomini, donne, ragazzi. Ma sì: «»Tutti quanti noi ne restiamo storditi, sbalorditi, e soprattutto posseduti» (ekpeplegménoi esmèn kaì katechómeta)

mercoledì, giugno 02, 2004

Meglio le immagini! 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

Alcibiade dà inizio dunque al suo "elogio". Ricorrerà - com'egli stesso dice - ad immagini (di'eikónon). E' il modo migliore per arrivare facilmente alla verità.
Ecco, Socrate è molto simile ad uno di quei Sileni esposti nelle botteghe degli scultori. Statuette artigianali internamente cave, che, aperte in due, rivelano il loro contenuto segreto: immagini di dèi (agálmata theôn).
Inoltre - aggiunge Alcibiade - egli assomiglia proprio al satiro Marsia!
No, Socrate non può negare queste somiglianze. Che non sono solo somiglianze nella figura (tò eîdos), ma anche in altre cose (kaì tâlla). Che lo ammetta senza fare l'arrogante (hybristés)!
Per i paragoni istituiti da Alcibiade, val la pena ricordare due cose.
Sileno era un personaggio del mito rappresentato con un addome prominemte, gli occhi esorbitanti e il naso schiacciato. Si tratta di un'immagine non troppo dissimile da quella che lo stesso Platone offre di Socrate in altro suo dialogo: Teeteto, 143E.
Quanto a Marsia, era un satiro tanto consapevolmente bravo, a suonare in flauto, da osare sfidare Apollo, suonatore di cetra; gli andò male: sconfitto dal dio, per punizione fu scorticato vivo.

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