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martedì, marzo 02, 2004

Amore e immortalità 

A cura di Giuseppe Tortora.
E mail: tortora@unina.it

L’uomo non può conservare se stesso «con l'essere sempre il medesimo in tutto quello che è» (ou tô pantàpasin tò autò aeì eînai): questa possibilità è riservata solo a «ciò che è divino» (tò theîon).
Dalla perdita di se stesso l'uomo si salva col generare e rigenerarsi continuo: ovvero - come s'è accennato - «con il lasciare in luogo di quello che se ne va o che invecchia, qualcosaltro che è giovane e simile a lui».
E' così che - aggiunge Diotima con decisione - «ciò che è mortale partecipa dell'immortalità (thnetòn athanasías metéchei), sia il corpo (kaì sôma), sia ogni altra cosa (kaì tâlla pánta)».
Nessuna meraviglia, dunque, se ogni essere, bestia o uomo, tiene in gran considerazione la propria prole, e dedica ogni cura: «è in funzione dell’immortalità (athanasías chárin) che questa cura (haúte he spoudè) e l'amore (kaì ho éros) s'accompagnano ad ognuno».

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